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Psicologia clinica

Il disturbo dipendente di personalità

Quando una personalità tende alla dipendenza affettiva e relazionale? Cos’è il disturbo dipendente di personalità?

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Cos’è il disturbo dipendente di Personalità?

Parliamo di cose serie: concentriamoci.

Ci siamo raccontati più volte che:

 la nostra personalità è il nostro modo abituale di fare esperienza e quindi di comportarci.

Ci siamo pure già raccontati di come i nostri comportamenti sono piani finalizzati a ristabilire il nostro equilibrio emotivo.

Da cosa può essere turbato questo equilibrio? Dai problemi. Dai nostri problemi.

In questo momento sono tranquillo e sto scrivendo questo contributo. Ipotizziamo che vada via la luce, cosa succederebbe? Il mio equilibrio verrebbe turbato perché si presenterebbe un problema;  di conseguenza mi attiverei per risolverlo.

Se in questo momento, mentre stai leggendo, notassi che nella stanza hai un calabrone, che faresti? Probabilmente smetteresti di leggere per risolvere il tuo problema: Devi farlo uscire o devi ammazzarlo. Dubito che lo lasceresti in stanza facendo finta di niente.  

Quindi, come si risolvono i problemi?

Cominciamo dall’inizio? Cominciamo dall’inizio.

Ogni volta che si presenta un evento che ci turba, ci stressiamo.

Lo stress non è altro che una tensione emotiva aspecifica ma prevalentemente ansiosa.

Succede una cosa o sappiamo che una cosa potrebbe succedere, sale la tensione e in automatico ci attiviamo per risolverla.

Sempre? Quasi.

Ad esempio: Le persone con umore depresso molto spesso non si attivano: sono rassegnate.

Quindi, come possiamo risolvere i problemi?

so che fra un mese devo sostenere un esame universitario. Mi metto a studiare, prendo appunti, ecc.… ecc.… e il giorno dell’esame andrò abbastanza sereno.

Entra un calabrone nella stanza; Mi alzo, apro la finestra, prendo un asciugamano e con sangue freddo faccio in modo di spingerlo fuori.

  • Facciamo un’analisi della problematica e pianifichiamo una soluzione:

Queste sono le soluzioni funzionali.

Oppure che potremmo fare?

  • Risolvere i problemi a caso:

Fra un mese c’è l’esame? “Vabbè, poi se ne parla”. Il giorno dell’esame vado, mi siedo e penso: “vabbè, come va, va”.

C’è un calabrone e gli tiro addosso tutto quello che trovo a portata di mano e se lo prendo lo prendo. Nel frattempo, ho sfasciato una stanza.

Questo tipo di soluzioni funzionano? Solo se siamo molto fortunati e nel lungo termine fortunato non lo è nessuno.

Oppure? Come si risolvono i problemi?

  • Non si risolvono.

È facilissimo gestire le tensioni non risolvendo i problemi.

C’è un esame? Non ci vado. C’è un calabrone? Chiudo la porta e cambio stanza.

 Funziona? Si, tantissimo nell’immediato; poi la vita diventa un casino.

Perché questo preambolo per parlare di disturbo dipendente di personalità?

Cosa c’entra la personalità?

C’entra, perché finora abbiamo preso in considerazione come noi risolviamo i problemi.

In realtà, possiamo decidere la via di mezzo:

  • “I problemi ce li risolvono gli altri”.

Ho un esame? Chiamo compulsivamente i miei colleghi per farmi dare i loro appunti. Se entrasse un calabrone invece dovrei chiamare per forza mia moglie, così lei lo fa uscire.  

Tutti siamo un po’ dipendenti.

Siamo esseri umani e come essere umani abbiamo bisogno di persone.

Per imparare decentemente quello che ci serve prima dell’esame, abbiamo bisogno di un professore motivato e competenze che ci spieghi le cose.

Se un calabrone facesse una tana e infestasse la casa di calabroni, ci servirebbe una ditta di disinfestazione.

La nostra personalità può rendere i nostri comportamenti più o meno dipendenti dagli altri e dalle altre cose.

Ad esempio, quanto la nostra personalità ci predispone a risolvere i problemi senza risolverli? Come? Con le sostanze.

Alcune persone, quando hanno un problema, bevono.

L’alcool allevia la tensione. Tutto risolto, il problema non c’è più.

Ma torniamo alla dipendenza relazionale, certe volte:

 la nostra personalità può essere disturbata.

Quando i nostri comportamenti, anche se non funzionano, continuano a essere sempre gli stessi ottenendo sempre le stesse conseguenze inutili ed indesiderate, sperando che le conseguenze cambino per miracolo.

Considera che alcune persone con disturbo di personalità dipendente diventano incapaci di prendere anche le decisioni più semplici: che tipo di pizza ordinare in pizzeria? E tu quale prendi? E io quale prendo? Posso dire che non sono d’accordo? E se non sono d’accordo se ne va?

Secondo te, come sta una persona molto dipendente?

Bene? Male? Può stare sia bene che male non è questo il discorso.

Se la persona, nella relazione, trova costanti rassicurazioni e costante supporto, sta bene.

Magari ha un disturbo dipendente di personalità, ma sta bene.

E quand’è che sta male? Quando le relazioni che risolvono i problemi, ogni tanto non li risolvono o addirittura non li risolvono più.

Facciamo finta che negli estremi di questa linea immaginaria si sono da un lato le persone totalmente autonome e indipendenti e dall’altro le dipendenti patologiche.

 Più o meno nel mezzo, ci siamo tutti noi.

Quindi, quando una persona dipendente sta male, come sta male?

Ha ansia? È triste? è arrabbiata?

Certe volte potrebbe sembrare che i dipendenti abbiano un disturbo d’ansia, certe volte un disturbo depressivo e certe volte ancora che soffrano di ira patologica.

Come mai?

I dipendenti gravi possono soffrire sia per la loro ansia, sia per il loro umore, sia per molto altro, ma il problema non sono i singoli problemi emotivi, il problema grosso è la personalità.

Immagina di essere molto dipendente.

Cosa fai per risolvere i problemi? Chiedi aiuto ai tuoi familiari. Ma cosa dai in cambio ai tuoi familiari? Tutto.

La tua vita è fare le cose per i tuoi familiari o magari per i tuoi amici. Ti prendi cura di loro in tutti i modi e sei molto premuroso.

C’è da gonfiare la palla per il calcetto? Ci pensi tu. C’è da chiudere lo sportello rimasto aperto? Ci pensi tu. Fai tutto. Fai tutto, perché ti aspetti che quando tu avrai bisogno di loro, loro faranno tutto quello che tu ti aspetti.

Sale l’ansia? Chiami qualcuno. C’è un problema? Chiami qualcuno.

E cosa succede quando quel qualcuno non ti accompagna dove non sei mai stato? Ti arrabbi. E ti arrabbi molto.

 Pensi: “io faccio sempre tutto e ora che mi serve un passaggio?”. Vatti a fidare degli amici, del marito, della moglie, della mamma, ecc.….

E se quel qualcuno si arrabbia a sua volta che fai? Ti spaventi perché potresti perderlo. Magari quel qualcuno si allontana davvero. Come ti senti? Triste. Molto triste.

Allora come risolvi la tristezza? Riavvicinandoti e ricominciando a fare tutto più di prima. Devi essere indispensabile.

L’ansia di poter riperdere quella persona ti fa fare tutto. Fai tutto e l’ansia scende. Ma ad un certo punto potresti riarrabbiarti e poi di nuovo essere triste, e così via.

Questo è uno dei modi in cui si può esprimere un disturbo di personalità dipendente.

È un vero e proprio ciclo emotivo interpersonale: ansia, rabbia, tristezza, ansia, rabbia, tristezza.

E la dipendenza affettiva? È un’altra cosa. La dipendenza affettiva è più simile ad una dipendenza da sostanze. Cioè le persone desiderano stare con la persona esattamente come desiderano drogarsi. E la relazione anziché crescere, maturare e consolidarsi come una relazione che funziona diventa una relazione morbosa e nel lungo termine insostenibile.

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Psicologo sociale e del lavoro, specialista in psicoterapia cognitiva e comportamentale. Si definisce uno "Psicologo Seriale".

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Psicologia clinica

Noia, Angoscia e Disperazione

Cos’è la noia? Cos’è l’angoscia? Cos’è la disperazione? Perchè la noia può determinare un angosciante senso di vuoto?

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Scusatemi. Mi dispiace. La settimana scorsa non sono riuscito a pubblicare il contributo settimanale. Sono un po’ incasinato e ho poco tempo.

Mi sono però venute in mente alcune cose:

 Noi siamo fatti per fare cose.

Gli esseri umani devono fare cose.

 È la nostra natura. Non siamo più scimmie che amano stare sugli alberi a masticare foglie. Non ci possiamo fare niente. È vero che quando abbiamo troppe cose da fare, ci stanchiamo e magari diventiamo stressati e insofferenti, ma è anche vero che quando non abbiamo niente da fare per un bel po’ soffriamo di più: soprattutto se ci sentiamo anche soli.

Da sempre le persone, all’interno delle loro comunità sono sempre state abbastanza impegnate. Il tempo per dormire non è mai stato abbastanza. C’era sempre qualcuno che doveva andare al fiume a lavare i panni, qualcuno che doveva riparare il tetto di paglia e qualcun altro che doveva attraversare la foresta per portare buone o brutte notizie. Praticamente l’evoluzione sociale ha portato l’umanità a capire come fare meno cose per stancarsi di meno e per questo certe volte i figli non sono mai stati abbastanza. Forza lavoro semplice da mandare o a zappare o in guerra.  Ora, dopo 200mila anni di storia ci è quasi riuscita. Ma qui viene il bello. Perché se abbiamo sempre lottato per farci sfruttare il meno possibile, adesso il problema è opposto, nessuno sembra volerci più sfruttare e stiamo diventando praticamente inutili.

la cosa ancora più brutta è che se non abbiamo niente da fare ma gli altri invece qualcosa sembrano farla, è ancora peggio, perché siamo anche soli.

L’altra volta ero in macchina e alla radio passa una canzone, che fa così:

“ti ricordi quell’estate, in modo anche se pioveva, e poi se tornerai, riconquisteremo il mondo”.

Lo so, è una canzone degli 883, ma mi sono commosso lo stesso. Che ci posso fare.

Mi era tornato in mente un mio carissimo amico che non so per quale motivo non frequento più. Cioè, credo che ad un certo punto della sua vita abbia deciso che non c’era più motivo di frequentarci. Non abbiamo mai litigato.

E poi una dietro l’altra ho pensato a tutte quelle persone che ci hanno lasciato, anche io avevo nonni fantastici. Insomma, ho pensato a tutte quelle persone che ogni tanto la loro assenza ci fa sentire un po’ più soli.

Nessuna attività da fare + nessuna persona da incontrare = CATASTROFE.

Ti capita? Certo che ti capita.

Ed è un problema.

Questa volta vorrei parlare di questa cosa.

Ok, la conosci le passanti di Fabrizio de Andrè? No, non la conosci.

Immagini care per qualche istante
Sarete presto una folla distante
Scavalcate da un ricordo più vicino
Per poco che la felicità ritorni
È molto raro che ci si ricordi
Degli episodi del cammino

Ma se la vita smette di aiutarti
È più difficile dimenticarti
Di quelle felicità intraviste
Dei baci che non si è osato dare
Delle occasioni lasciate ad aspettare
Degli occhi mai più rivisti

In queste due strofe c’è praticamente tutto. Il passato, con tutta la sua malinconia, lascia piacevolezza. Tristezza piacevole.

Non è il passato che condiziona il nostro stato emotivo presente, ma è il nostro presente che condiziona il nostro stato emotivo presente. È la spiacevolezza del presente che ci fa idealizzare il passato.

Ti ricordi quando ci siamo raccontati che lo stress è uno stato di tensione emotiva?

Ogni volta che abbiamo qualcosa da fare, perché la dobbiamo fare, siamo più o meno stressati in modo piacevole o spiacevole. Tutto quello che facciamo serve a riportarci ad un sopportabile o piacevole equilibrio emotivo. Giusto? Giusto.

Cosa succede quando non abbiamo niente da fare?

Ci annoiamo.

 La noia non è altro che uno stato personale totalmente privo di ogni tipo di tensione emotiva. Sei, triste? No. Sei Felice? No. Sei arrabbiato? No. Hai paura? No. Perfetto. Sei annoiato.

La noia è anche bella. Hai in mente quando facciamo qualcosa di importante? O raggiungiamo un obiettivo significativo? Bene. Dopo la gratificazione iniziale, quella che segue è una fase di noia. Bellissimo. Quello stato in cui tutto sembra non avere importanza. Siamo soddisfatti e ci godiamo il bel niente. Magari mettiamo un disco che non mettevamo da un bel po’ perché non avevamo neanche il tempo di pensare che l’avevamo ancora.

Bellissimo.

Ma che succede quando questo stato di noia è eccessivamente prolungato?

Cominciamo ad avvertire il vuoto.

Il vuoto emotivo non è altro che uno stato prolungato di noia. Uno stato in cui non solo non facciamo niente, ma non abbiamo un piano, un programma, delle aspettative. Mamma mia.

Bruttissimo.

La fregatura delle fregature è che il vuoto può diventare angoscia e l’angoscia  è devastante.

L’angoscia è quel peso insostenibile fatto di vuoto, disperazione e ansia.

Una tristezza profonda determinata dalla sensazione di non avere niente, nemmeno la speranza.

 E l’ansia determinata dalla sensazione di non avere possibilità o capacità di poterne uscire fuori.

E quindi che si fa. Come che si fa. Non ci stiamo cominciando a capire?

Fai qualcosa. Cosa? Qualsiasi cosa mannaggia. Non lo sai? Lo so.

Almeno comincia a pensarci.

Serve un piano.

Anche perché il rischio è che la fase successiva sia cominciare a pensare al suicidio e poi cominciare seriamente a prenderlo in considerazione. Cioè il suicidio sembra una via d’uscita e paradossalmente il piano per la nostra vita diventa pianificarne la fine. Non scherziamo.

Hai mai avuto il commodore 64? Io si. Ogni tanto mi ricordo quanto era bella giocare col commodore, ma diciamoci la verità i giochi facevano schifo. Erano bellissimi ma rispetto a quelli di ora, facevano schifo. Cioè solo chi non si gode la realtà continua a credere che era meglio prima.

Io i nonni non li ho più però quando guardo i miei figli con i miei genitori mi rendo conto che sono tornati.

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Generale

La psicoterapia cognitiva comportamentale non cura “solo il sintomo”

la psicoterapia cognitivo comportamentale non cura solo il sintomo. Questo pregiudizio nasce in contrapposizione agli altri modelli che…

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La terapia cognitiva comportamentale cura solo il sintomo?

Che vuol dire curare il sintomo?

L’altra volta un mio amico mi ha detto: “Sto cercando uno psicologo però non vorrei andare da un cognitivo comportamentale perché non ho un disturbo specifico, quindi non ho sintomi da curare. Mi piacerebbe di più parlare”.

Qualcosa di simile, il senso era questo.

Ma parlare di cosa del senso della vita? Dell’origine dell’universo?

Non credo.

Chi va dallo psicologo vuole risolvere il proprio disagio emotivo.

Se mi fa male una gamba e vado dal dottore, mica gli dico: “guarda, della gamba non mi interessa poi così tanto. Vorrei parlare dei sacramenti. Tu che ne pensi”.

Quindi,

 dallo psicologo ci vanno le persone che vivono un disagio emotivo più o meno complesso, più o meno intenso e più o meno prolungato nel tempo.

Sulla psicologia e sugli psicologi ci sono tanti pregiudizi e tanti stereotipi, questo è uno dei tanti ed in particolare si rivolge agli psicologi psicoterapeuti specialisti in terapia cognitiva comportamentale.

Vorrei approfittarne per chiarire alcune cose.

La terapia cognitiva comportamentale non cura i sintomi ma la persona nella sua totalità.

La credenza che la psicoterapia cognitiva comportamentale si concentrasse eccessivamente nella cura del “sintomo” si è diffusa in contrapposizione alle cosiddette terapie del profondo, tipo la psicanalisi.

Ci sono stati anni in cui i modelli psicoterapeutici erano in forte contrasto ed anche in competizione tra loro.

Tra le fazioni i cognitivisti accusavano gli psicoanalisti di perdersi in chiacchiere con la scusa di fare terapie inconcludenti che duravano secoli ma che loro definivano necessarie per curare davvero la persona in tutta la sua complessità e profondità;

e gli psicoanalisti accusavano i cognitivisti o comportamentisti di fare terapie eccessivamente concentrate sui sintomi che funzionavano all’inizio ma che poi alla lunga la malattia sarebbe ricomparsa.

Da parte mia posso dire e confermare che il fatto che la terapia cognitiva comportamentale si preoccupa di curare solo il sintomo è assolutamente falso, oltre che farlo sarebbe inutile.

Credo che tutti i modelli psicoterapeutici ormai si approccino alla persona in quanto tale.

il “sintomo”, rappresenta il problema attivo presentato dal cliente paziente ed esprime la difficoltà, la criticità che si vorrebbe approfondire e risolvere.

Per esempio, non serve che la persona dica: “sono depresso e penso di volermi suicidare tanto tutto è inutile”, per identificare 2 sintomi: Umore basso e assenza di speranza. Il solo fatto di dire: “sono insoddisfatto, penso che mi manchi qualcosa ma non so esattamente cosa”, frase che ogni tanto potremmo pensare e dire tutti” è di per sé sintomatica perché esprime un disagio emotivo. Un disagio emotivo che può essere semplice e lineare o complesso e strutturato ed è da queste prime dichiarazioni che bisogna approfondirne origine e complessità.

Quello che dico sempre è: “cominciamo a raccontarci le cose più facili ed ovvie e poi se non dovesse bastare, approfondiremo senza cadere in facili e magiche interpretazioni.

Esattamente come ispira il principio del rasoio di Occam che alla fine è il principio che orienta la scienza.

Ne hai mai sentito parlare? Te lo racconto brevemente. Ce ne sono mille versioni ma sinteticamente la storia è questa: una volta un signore ha trovato un oggetto dalla forma strana durante degli scavi archeologici  e allora tutti gli archeologici, storici e filosofi del mondo si sono riuniti per capire cos’era. Qualcuno diceva è uno strumento di misurazione del tempo, qualcun altro addirittura diceva che serviva ad aprire un portale extra dimensionale per gli alieni. Alla fine, ad un certo punto uno dice: “Signori, è un rasoio. Rilassatevi. Questa pietra prima era affilata e la usavano per farsi la barba”.

Posso confermare che “il profondo” se necessario, è approfondito pure dai comportamentisti, nel momento in cui fanno un’analisi e una valutazione delle esperienze di vita precoci che se particolarmente spiacevoli, hanno potuto predisporre, determinare e condizionare negativamente la crescita della persona.

In ogni caso,

smettiamola di cadere nel tranello fomentato ultimamente pure dai vari counselor e coach che dicono che dallo psicologo ci vanno quelli che hanno un disturbo psicologico preciso mentre da loro ci vanno quelli che vogliono parlare di come diventare campioni ricchi e forti.

 A parte che non sarebbero capaci di riconoscere chi ha un disturbo psichiatrico da chi non ce l’ha, queste persone giocano a fare gli psicologi esercitando abusivamente la professione.

Ma va bene così, andiamo dove vogliamo. Sono secoli che nella maggior parte dei casi basta andare dal prete o nei casi peggiori dal barbiere.

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Psicologia clinica

La Gelosia

Cos’è la gelosia? perché può essere pericolosa? Come si riconosce la gelosia? Come si gestisce e si controlla la gelosia?

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A proposito di Gelosia…

Come per le altre emozioni, proviamo a vederci più chiaro.

Cos’è la gelosia? Come funziona? Come la gestiamo?

Sicuramente non sarò esaustivo, non è possibile esserlo in questo modo, ma spero almeno di essere un po’ utile.

Se hai letto gli altri contributi, dovresti sapere che l’attivazione emotiva dipende da come interpretiamo quello che sta succedendo.

Ogni volta che succede qualcosa, la nostra mente osserva, interpreta e giudica. Lo fa continuamente. Se qualcosa per la nostra mente è rilevante, allora attiva l’emozione che ritiene più opportuna. Così facendo, la nostra attenzione selettiva viene coinvolta ed agiamo nel modo che a nostro avviso ci riporterà alla serenità.

D’altra parte,

ogni nostro comportamento potrebbe essere un piano finalizzato all’equilibrio emotivo.

  • Ho paura dei cani? L’ansia va su. Entro in macchina? L’ansia va giù.
  • Mi sorpassi da destra? La rabbia va su. Ti grido contro? La rabbia va giù.

Ansia e rabbia sono emozioni semplici ed elementari.

Se non l’hai già fatto, potresti leggere cosa sono ansia e rabbia perché la gelosia è complessa e composta prevalentemente da queste due emozioni.

La Gelosia si compone di Ansia, rabbia e una relazione sociale romantica, amicale, familiare, lavorativa, ….

Se l’ansia ci mette in allarme circa una probabile minaccia dalla quale dobbiamo difenderci, la rabbia è la più automatica strategia di difesa.

Quando pensiamo che potremmo essere feriti e quindi crediamo di poter vivere una situazione di pericolo possiamo adottare prevalentemente tre strategie. Non reagire-scappare, reagire male o reagire bene.

Quando non reagiamo, perché pensiamo che tanto sarebbe inutile tanto non avremmo scampo, allora cominciamo a diventare tristi rassegnandoci all’inevitabile perdita.

Se invece scegliamo di reagire uno dei modi per farlo male è quello di attaccare.

Ci arrabbiamo quando pensiamo che una regola che per noi è importante è stata infranta e soprattutto se a causa di questa violazione stiamo perdendo una cosa importante.

  • Mi superi a destra. Non si fa. Potevo farmi male. Ti inseguo gridando perché devo illudermi di poterti ferire (rabbia).

Adesso sono sicuro che stai cominciando a capire cos’è la gelosia.

  • Tu sei mia. Quello che fai non si fa. In questo modo potrei perderti. Devo difendermi. (Ansia+Rabbia).
  • hai salutato a quello? Quello ti vuole. Non dovevi parlargli tutto sto tempo. Io non do la colpa a quello. Io do la colpa a te. Sei una XXX.

Nel “geloso”, non bisogna inoltre trascurare una certa insicurezza e sensazione di vulnerabilità trascurata e non del tutto consapevole.

“Se tu sei mia, ma posso perderti è perché probabilmente io non sono abbastanza forte da saperti conservare”.

Come ogni altra emozione, anche la gelosia agisce su vari livelli. Può andare dal semplice fastidio e dalla semplice irritazione che al massimo ci fa mettere il broncio per un po’, alla sensazione di disperazione più estrema con ira funesta che distrugge tutto ciò che di più caro abbiamo vicino solo per avere quell’effimero ma potentissimo sollievo immediato. Le conseguenze dopo quel sollievo le conosciamo tutti.

La catena comportamentale potrebbe essere questa:

  1. Regola fortissima. Rigida doverizzazione.
  2. Frustrazione
  3. Catastrofizzazione
  4. Giudizio

Ad esempio: Tu devi fare così, così e così. Invece fai questo, questo e questo. (REGOLE); Perché se non fai così io non lo sopporto e non posso sopportarlo (FRUSTRAZIONE); In questo modo tutto sarà un disastro più totale ed un casino assoluto (CATASTROFIZZAZIONE); In questo modo tu sei una XXXXXX ed io faccio la figura del XXXXXXXX (GIUDIZIO); Tutto questo non posso accettarlo e lo impedirò.

La gelosia è strana perché spesso ci fa amare la stessa cosa che ci spaventa.

Altre volte si riversa su altre: amo te ma sono geloso di Y.

Tutto quello che ci siamo detti, naturalmente non riguarda solo gli uomini.

Riconoscere le proprie emozioni, i propri pensieri ed i propri comportamenti anche in questo caso è quindi necessario per ritrovare una maggiore e più adeguata serenità.

Sò che la gelosia non si esaurisce in queste poche righe. Per me era solo importante riuscire a definire in confini dentro il quale la gelosia si muove.

Approfondimento col video seguente (GELOSIA 2)

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